Il futuro della medicina? Si va verso la specializzazione

Il futuro della medicina? Si va verso la specializzazione

Sanitadomani.com – Specializzazione e cura della persona: queste le indicazioni per la medicina del futuro.
In un mondo che si trasforma in modo sempre più rapido, anche la sanità deve rispondere alle nuove esigenze dei pazienti

Come in altri settori, specializzarsi in modo sempre più specifico è una strada seguita dai professionisti e dalle strutture di eccellenza. Ne parla anche il professor Nicola Marzano, chirurgo ortopedico specialista esclusivo del ginocchio, che ha seguito questa strada: da 30 anni si occupa quasi esclusivamente di protesi al ginocchio. Non è solo il perfezionamento della tecnica a guadagnarci, ma anche la relazione con il paziente. Gli incontri di gruppo con i pazienti che si avvicinano all’intervento e un rapporto diretto tra loro e gli operatori sanitari permettono un recupero rapidissimo: dalla sala operatoria si esce sulla proprie gambe.

Un servizio di eccellenza, che il medico offre alla Casa di cura Rizzola di San Donà di Piave; la struttura punta a diventare centro di riferimento europeo per la chirurgia robotica spinale. La sua speranza è di dare visibilità al suo metodo per far sì che venga condiviso anche da altre équipe e che, in definitiva, a beneficiarne siano molti più pazienti.

Come mai punta così tanto sul rapporto coi pazienti?

Perché quello a cui dobbiamo puntare è la qualità della vita. E ancor più che di pazienti, mi piace parlare di persone. Le persone vogliono guarire in fretta e bene. In qualità di medici abbiamo una missione importante: migliorare la qualità della vita di chi l’ha persa.

È per questo motivo che, se ne ha bisogno e non ci sono controindicazioni importanti, accetto di operare anche il paziente al di là della sua età anagrafica. Non dico mai che a 50 o 55 anni è troppo presto per sottoporsi all’operazione, che si è ancora giovani per avere una protesi. Se la persona sta soffrendo, e sta soffrendo magari da anni, non ha senso continuare a farla vivere in quel modo. Noi li operiamo e li rimettiamo in piedi in un giorno, e la loro qualità di vita migliora esponenzialmente.

Ha mai pensato di insegnare questa metodologia?

La mia missione è intercettare la passione dei giovani colleghi. Mi piacerebbe molto avere accanto medici interessati a questo percorso. Vorrei che questo approccio venisse replicato altrove e trovare qualcuno a cui poter passare il testimone. La difficoltà è cambiare mentalità. Il nostro approccio al paziente non si vede nelle università, e nemmeno in molti ospedali. Ho provato a portarlo nei convegni, ma bisogna viverlo.

È comprensibile che un medico segua il percorso che gli è stato insegnato. Ma la medicina deve essere innovazione e specializzazione. Non possiamo pensare di operare come si faceva 20 anni fa, forse neppure come 10 anni fa. Sono cambiate le esigenze delle persone e le tecniche operatorie. Deve cambiare l’intero approccio al paziente.

Qual è la strada del rinnovamento della professione medica?

La specializzazione. Non si dovrebbe più parlare di ortopedia in senso generico, non si può essere “tuttologi”. Come dico sempre, un medico può fare l’ortopedico fino ai 40 anni, poi deve scegliere: la spalla, il gomito o il ginocchio.

Io faccio solo protesi al ginocchio da anni. Questo mi permette di avere un’esperienza profonda in questo intervento, molto di più di colleghi che fanno poche protesi al mese, per di più intervallate da altre operazioni. È logico che aumenti la precisione e la velocità: mezz’ora invece di un’ora. E non si tratta di risparmiare solo tempo, si ha una minor perdita di sangue, una diminuzione del tempo di esposizione, una dose minore di anestesia. Tutti vantaggi del paziente. Anche il rischio di infezioni si riduce: si scende da un 2,4% a un valore prossimo allo 0. Ricordiamoci che in medicina i numeri assoluti non vanno mai usati. 

E soprattutto, serve passione. La nostra professione non deve diventare una routine. Dobbiamo essere spronati a migliorarci e a imparare, in ogni momento; non bisogna mai pensare di essere arrivati.

Quando ha cominciato a lavorare con il suo metodo?

Più di trent’anni anni, in Veneto, quando ho conosciuto il professor Renato Viola, mio maestro. Già lui faceva le riunioni con i pazienti per coinvolgerli nel processo di guarigione. La messa a punto del metodo risale al 2017, quando i pazienti hanno cominciato a scendere dal lettino della sala operatoria con le proprie gambe, il che permette di guadagnare settimane sulla riabilitazione. Un paziente responsabilizzato sarà più attento a casa nel seguire le indicazioni, velocizzando il proprio processo di guarigione facendo diminuire il rischio di complicazioni.

Ma la vera differenza, e qui mi ripeto, consiste nel dialogo intenso con i pazienti. L’attenzione alle persone ripaga sempre. Ai miei pazienti do il mio numero di cellulare, e nessuno ne ha mai abusato. Quando si crea una buona relazione, le cose poi funzionano.

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